Il licenziamento della lavoratrice in maternità

Pochi sanno che in base al D. LGS. 151 del 2001 è severamente vietato licenziare la lavoratrice madre non solo durante il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro (il c. d. congedo di maternità che normalmente decorre da due mesi prima della data presunta del parto sono a tre mesi dopo il parto effettivo), ma anche nel periodo che va dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino.
Per legge si presume che la gravidanza inizi 300 giorni prima del parto così come previsto nel certificato medico che attesta la gravidanza.
Non solo, ma anche le eventuali dimissioni sono sottoposte al controllo della DPL.
Il licenziamento intimato in questo periodo (salvo le eccezioni che vedremo di seguito) è nullo. La lavoratrice ha diritto alla reintegra (salvo il diritto di opzione quando la lavoratrice preferisca il risarcimento del danno alla reintegrazione piena), al risarcimento del danno, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
In realtà le tutele sono leggermente differenziate se la lavoratrice sia stata assunta prima o dopo il 7 marzo del 2015. Infatti, prima di tale data operava lo Statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970 così come modificata dalla legge 92 del 2012), dopo tale data opera il c. d. jobs act, cioè il decreto legislativo 23 del 2015, ma la sostanza cambia di poco.
Ma… quando si può licenziare la lavoratrice in periodo di maternità?
Se il contratto è a tempo indeterminato in due soli casi:
1) per giusta causa (si pensi all’ipotesi che la lavoratrice commetta un reato ai danni dell’impresa e – o del datore di lavoro);
2) in caso di cessazione dell’attività di impresa.
Su questo secondo punto la Giurisprudenza negli anni ha meglio specificato l’ambito di applicazione di questa seconda ipotesi: ha sancito che è possibile il licenziamento solo quando cessi l’attività dell’intera impresa e non si un singolo ramo di azienda. La Cassazione ha infatti ribadito con la Sentenza n. 13861 del 20 maggio 2021 “l’illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice madre in caso di cessazione di un singolo reparto e non dell’intera azienda”.
Residuano altre due ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro:
3) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;
4) esito negativo della prova (Corte Cost. n. 172 del 1996).
Infine, giova ricordare che in base ad una sentenza della Corte Costituzionale dal divieto di licenziamento per maternità sono escluse soltanto le lavoratrici domestiche, non potendosi imporre la presenza di un’estranea nell’intimità familiare, nonché il già citato caso dei rapporti di lavoro in prova (Corte Cost. n.172 del 1996).

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